Pubblichiamo una riflessione sul tema dell’ospitalità da parte del prof. Giuseppe Milan
fonte: unimondo.org
La parola “ospitalità” sembra offrire spunti di riflessione particolarmente appropriati nel contesto in cui ci troviamo a vivere, dove le parole utilizzate nei confronti dello straniero sono più spesso legate a un’idea di negazione, rifiuto, respingimento, da una parte, o accoglienza, solidarietà, primo soccorso, dall’altra. La legge dell’ospitalità ci impone un cambiamento radicale di paradigma, che ci porta a considerare le relazioni interculturali come movimenti reciproci e bidirezionali. Solo in questo modo, è possibile costruire una “dimora” dove cittadini presenti qui da generazioni, cittadini di recente acquisizione, così come “ultimi arrivati”, possano sentirsi pienamente riconosciuti.
Una società che non diviene dimora per tutti è infatti costantemente aperta al rischio del non riconoscimento delle sue componenti minoritarie, fino a episodi di discriminazione ed esclusione: sono molti quelli che subiscono la costrizione dell’esilio.
È soltanto apparentemente lontano il tempo in cui, nel 1938, Martin Buber (grande pensatore ebreo-tedesco, 1878-1965) intraprendeva un viaggio, non certo di sua volontà, costretto com’era a fuggire dal Nazismo. E, nella precarietà di quella situazione scriveva: “Viviamo un’epoca ‘senza casa’, siamo perduti ‘in aperta campagna’ e non possediamo neppure quattro picchetti per innalzare una tenda”( Il problema dell’uomo)
Era, evidentemente, una metafora: la dimora di cui denunciava la mancanza non era certo una casa fatta di muri e stanze, non alludeva neppure a quella suggestiva dimora che, come una tenda, può essere messa in uno zaino come equipaggiamento essenziale nelle escursioni giovanili. Buber si riferiva ad una dimora più intima, più essenziale e urgente: a quella dimora esistenziale, ontologica, che per lui è l’Io-Tu, l’incontro autentico, il dialogo che chiama ciascuno ad uscire dalla nicchia dell’autocentramento, dove la parola è monologo, pensiero unico, o dall’anonima indifferenza di una collettività omogeneizzante, dove la parola è “chiacchiera”, cacofonia, è vuota, è morta. La “dimora”, insomma, è il dialogo ospitale, l’incontro che permette di oltrepassare il regno della cosalità, dell’Esso (dove l’altro è un “qualcosa”) per varcare la soglia del Tu (del Tu “riconosciuto”, con la misteriosa grandezza che lo costituisce). Appare attuale, forse più che nei suoi anni, la denuncia di Buber.
Oggi le escursioni dell’io – in crociera o in gommone in mari poco ospitali, nelle strade luccicanti delle nostre città o nelle periferie degradate che proliferano a tutte le latitudini – alla fin fine attenuano quasi sempre, o fanno naufragare, le nostre presunzioni, e ci riportano all’orfanezza di fondo dell’essere – nonostante tutto – “senza casa”.
O richiamano ad una casa angusta, del tutto inadatta alle esigenze reali dell’abitare. A volte, come denuncia Bauman, ci rintaniamo nel chiuso delle nostre paure, e – spinti dalla crescente “Building Paranoia”( Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone). (Paranoia del costruire muri) – innalziamo attorno alle nostre case, attorno ai nostri quartieri o alla nostra “civiltà” una serie infinita di recinzioni, di separatori sociali, di strumenti di interdizione che – elementi portanti di una cultura dell’apartheid – impediscono all’altro di valicare i nostri confini e di avvicinarsi alle nostre abitazioni. Questi bunker dell’io, queste nicchie culturali iperprotette da sofisticati sistemi d’allarme, non sono certo la “dimora” intesa da Martin Buber. In esse, l’essere umano (individuale e collettivo) spesso tradisce se stesso, contraddice il compito di migliorare, di diventare più grande, di “oltrepassarsi” veramente, andando oltre i confini ristretti per avvicinarsi ad altri fini.
Tutt’altro che facile e scontata, la dinamica dell’ospitalità chiama in causa un’arte complessa che si articola attorno a più movimenti: l’arte di allestire un luogo abitabile, l’arte di invitare, l’arte di andare a trovare e infine l’arte di sostare. Affrontando e superando, in ogni fase, contraddizioni e paradossi.
L’arte di allestire un luogo abitabile
Per ospitare ci vuole una casa. L’uomo è chiamato ad un rapporto creativo con lo spazio, per fletterlo umanizzandolo e rendendolo luogo abitabile. Martin Heidegger – similmente a Buber – afferma che l’uomo è in quanto abita. Il suo modo di esistere nel mondo si esplica nella forma dell’abitare, nell’ospitare un luogo e nel farsi da esso ospitare. Un luogo è ospitale, e ospita, se è amato, rispettato. Se, come sollecita la Genesi, esso è un giardino affidato all’uomo perché lo coltivi e lo custodisca. Non è facile, oggi, coltivare e custodire in modo coerente ed equilibrato.
Spesso le case – ma anche le città – sono ridotte a “tane” inabitabili, anguste all’interno e inaccessibili dall’esterno. Spesso sono spazi senza il respiro dell’umanità, veri e propri non-luoghi (M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità), edificati e “coltivati” con l’unica preoccupazione del business, del mercato, del consumismo. Spazi di un correre senza incontro, del tutto aperti e senza i limiti dati dalla presenza di elementi vitali. Bauman spiega il vivere in questi non-luoghi sostenendo che “si pattina sul ghiaccio sottile”: soltanto la velocità consente di non sprofondare! Non basta il coltivare per produrre – costruendo in fondo una babele senz’anima: è necessario, invece, “coltivare per custodire” (“essere custode di”).
Spetta a ciascuno di noi, allora, scoprire la giusta misura dell’abitare autentico, umanizzando gli spazi per renderli “dimore”, agorà, piazze, comunità – capaci di essere ospitati e di ospitare.
L’uomo è perciò questa capacità di ospitare un luogo, amandolo, per farsi ospitare da esso e per renderlo ospitale per gli altri. Ed è l’uomo stesso, in questo modo, che trova la sua collocazione autentica, proprio perché riconosce la propria mappa esistenziale in questo abitare un luogo aprendolo all’abitabilità altrui. Facendosi, perciò, abitato dall’altro.
La prima domanda della Bibbia, “Dove sei Adamo?”, chiede all’uomo di esserci, di non nascondersi, di rapportarsi perciò coerentemente con se stesso e con gli altri, manifestandosi perciò con “sincerità” e autenticità, senza occultamenti e distorsioni identitarie. Gli chiede, in altre parole, di aver luogo, di assumere una posizione rispetto al mondo, evitando di trasformarlo in un nascondiglio, in una tana, in una casa blindata e, nel contempo, di sottrargli la specifica dimensione di custodia, di intimità che come dimora autentica deve conservare.
Si tratta, insomma, di un equilibrio complesso, di una giusta misura tra la “monade senza porte e senza finestre” e la “terra di nessuno”, per sfuggire sia alla trappola identitaria dell’autocentramento solipsistico sia quella dell’allocentrismo banalizzante.
Non è semplice, in questa prospettiva, intendere nel giusto modo il concetto di “ospitalità assoluta” che propone Derrida (Sull’ospitalità). Significa aprire incondizionatamente le proprie porte, rendere assoluta l’accessibilità alla propria dimora? Va pertanto individuata con intelligente sapienza la discriminante tra luogo e non-luogo, tra vera ospitalità e anonima indifferenza. Probabilmente la soluzione va rintracciata nell’Io-Tu, nella reciprocità che impedisce all’Io e al Tu, proprio nel riconoscimento dell’Assolutezza del Tu, di porsi come assoluti per assumere perciò la giusta posizione dello “stare di fronte”, del “rispetto”.
Il viaggio dell’ospitalità prevede l’arte di invitare l’altro. Un invito autentico presuppone, come già visto, il possesso di una casa abitabile, degna di accogliere un ospite. Suppone pertanto il possesso di qualcosa da offrire, da condividere. Nello stesso tempo, implica un desiderio: si invita chiedendo, riconoscendo perciò l’importanza dell’ospite, del Tu (il Tu, dice Buber, “non è mai qualcosa”) e manifestandoci poveri e bisognosi di fronte a lui.
La consapevolezza della propria povertà, che equivale a umiltà, è condizione di partenza per stabilire un incontro autentico, il quale non si regge sulla prepotenza dei mezzi o dei contenuti, ma proprio sulla povertà di chi sa condividere.
L’umiltà del viaggiatore in ricerca, più che il patrimonio di un ricco possidente che apra i suoi scrigni e porga le sue ricchezze, è condizione del vero incontro. Ospitalità – ecco un’apparente contraddizione con quanto poco fa affermato – non è tanto elargire la propria casa; è, piuttosto, condividere le proprie povertà e farle diventare tetto comune. Jacques Derrida, come sempre incisivo, propone al riguardo una domanda e una risposta: “Per offrire ospitalità bisogna partire dalla sicura esistenza di una dimora, oppure soltanto partendo dalla mancanza di legami del senzatetto, del senza casa può aprirsi l’autenticità dell’ospitalità? Forse solo chi sopporta l’esperienza della mancanza di casa può offrire ospitalità”.
È chiaro che tutto questo presuppone l’accettazione incondizionata dell’ospite, il Tu che si presenta. “Accettare”, dal latino “accipere” significa “prendere con sé”, “farsi carico di”, “contenere”, “abbracciare”; l’etimologia lo accosta a “concepire”, che significa “dar vita a” (es.: concepire un’opera d’arte), ma anche “capire”, “comprendere”. Nell’atto di accettare, insomma, si apre lo spazio per il comprendere e per il concepire-generare.
Il verbo latino “acceptare”, cui pure si può far risalire il nostro “accettare”, è frequentativo di “accipere” e significa accogliere sempre, continuativamente, regolarmente, in ogni caso: quindi, accettare incondizionatamente, accettare ciascuno e tutti, senza operare preventive stigmatizzazioni, selezioni, emarginazioni in base a simpatie, classi sociali, età, sesso, cultura, etnia, colore della pelle, religione.
Educare è indubbiamente invitare e ospitare: compito degli educatori è quello di essere essi stessi, in primo luogo, invito-ospitalità, attraverso una comunicazione accettante e l’allestimento di un contesto ospitante, capace di valorizzare le risorse di ciascuno.
L’arte di andare a trovare. Empatia e rispetto
Possiamo dire che, quasi paradossalmente, presupposto dell’”arte di invitare” è l’arte di “andare a trovare l’altro”, di “decentrarci” verso di lui. In caso contrario si stabilisce un rapporto unidirezionale, in cui qualcuno accoglie e qualcuno è accolto, senza possibilità di invertire i ruoli nonché di sperimentare una autentica relazione di reciprocità.
L’itinerario che conduce all’altro, che conduce “a casa sua”, è l’empatia: la capacità di mettersi nei suoi panni (pensieri, bisogni, desideri, mentalità, esperienze, storia, etc.) pur restando se stessi, mantenendo perciò la necessaria distanza interpersonale, perché l’Io-Tu non è fusione né identificazione: è, come sostiene Buber, guardarci e parlarci da sponde opposte, sapendo tuttavia passare all’altra sponda, metterci dall’altra parte. Con una “fantasia reale” – così la chiama Buber – che mi permette di comprendere, di giustificare, di entrare in rapporto autentico, con un’attitudine immaginativa ad oltrepassare la superficialità dell’apparenza, per sondare anche le misteriose profondità dell’altro, ma – nel contempo – con la chiarissima consapevolezza della “reale” alterità del tu che mi sta di fronte.
È evidente infatti il rischio di una concezione riduttiva o sbagliata dell’empatia. Succede quando l’ “andare a trovare” è del tutto fittizio, quando cioè il “pensare l’altro” avviene sempre a partire dal primato dell’io: io penso, io comprendo, io empatizzo…, sempre a partire da me stesso. Come denunciano, tra gli altri, Emmanuel Levinas e Paul Ricoeur, è impossibile comprendere autenticamente l’altro se non si esce dalla sovranità dell’Io.
Scrive Levinas: “Questo essere si manifesta non a partire da me, bensì a partire da se stesso, si impone come ‘presenza’ che si dà in un ‘volto’: il volto è l’identità stessa di un essere che mi si presenta a partire da sé, senza concetto”.
È soltanto nella relazione Io-Tu, dove – come afferma Buber – ci si sta di fronte, su sponde opposte, che è possibile riconoscere l’irriducibilità del tu all’io, la sua trascendenza, il mistero che sempre lo avvolge e che contrasta qualsiasi presunzione di conoscenza esaustiva e definitiva.
L’empatia autentica, in questa prospettiva, va unita imprescindibilmente al rispetto (la consapevolezza che l’altro abita sempre altrove, che il suo indirizzo – non soltanto anagrafico – è realmente altro dal mio).
“Nel rispetto un volere pone il suo limite ponendo un altro volere”, sostiene Ricoeur. “Con il rispetto l’io si limita e l’altro è posto come valore assoluto, come esistenza e come radicalmente diverso dalle cose, ossia come fine”.
Il rispetto aiuta a mantenere “l’alterità degli esseri che la fusione affettiva tende ad annullare” e – ponendo l’empatia in concreto rapporto con l’alterità – dà spazio alla positiva possibilità del “conflitto, non eliminabile dall’esperienza dell’altro e tuttavia non definitivo”. Proprio l’empatia autentica, questo metterci dall’altra parte sapendoci guardare da una prospettiva diversa (da una meta-prospettiva), può consentirci di approdare ad una nuova e arricchita identità, ad una meta- identità: il vedere “l’altro che io sono per l’altro”, “il Tu che Io sono per il Tu”, può rendermi disponibile, in fondo, a scoprire l’ospite che sono per me stesso, a comprendermi in modo nuovo e a farmi cambiare (“Io mi costruisco nel Tu”, Buber). Questo è un altro corollario della legge dell’ospitalità, ed è quasi emozionante renderci conto che riusciamo ad abitarci, ad essere cittadini di noi stessi, proprio perché – facendoci ospitare dall’ospite – andiamo ad abitare da lui.
È quanto, in altri termini, propone Paulo Freire quando sottolinea l’importanza che la relazione educativa ci aiuti a metterci al posto dell’altro. Soltanto così si rompe la rigidità dei rapporti di potere e si entra nella feconda dinamica della reciprocità. Scrive il pedagogista brasiliano: “Non più educatore dell’educando, non più educando dell’educatore, ma educatore-educando con educando-educatore. In tal modo l’educatore non è solo colui che educa, ma colui che, mentre educa, è educato nel dialogo con l’educando, il quale a sua volta, mentre è educato, anche educa”.
Ci troviamo così all’interno della preziosissima dimensione della “reciprocità”, di quell’amore reciproco che sempre è fecondo, ricco di doni, e che per i cristiani include in una dimensione sacra, icona della Trinità, altissima e profondissima. Nella strada di Emmaus, dove insieme ci si parla, si comunicano le nostre storie e anche le nostre inquietudini, possiamo scoprire con stupore di essere accompagnati da un ospite inatteso, soltanto apparentemente straniero. La realtà pedagogica dell’ “accompagnare” (etimologicamente, il pedagogo è “colui che accompagna il bambino”) si autentica concretamente nel dinamico andirivieni della reciprocità (recus-procus = avanti-indietro), in quella sorprendente circolarità di risorse, di narrazioni, di emozioni, che include nello spazio sempre sconfinato e suggestivo della “comprensione”.
È tuttavia evidente che, per pervenire ad un dialogo efficace, “comprendere non basta”; né basta per “educare”. Una relazione efficace, significativa, concreta, educativa, non si accontenta del pur dinamico andirivieni accettazione-empatia, invitare e andare a trovare. È necessario fermarci nella relazione, costruire nell’incontro la “mensa comune”, la creatività che l’ospitalità genera. Il sostare nella relazione non è una dimensione onirica, sterile contemplazione reciproca, ma è reciproca coltivazione-custodia dell’io e del tu, oltre che condivisa coltivazione-custodia del mondo comune. Questa fase dell’ospitalità necessita così di un ulteriore passo, che non sempre viene ricordato: è quello che Martin Buber chiama “lotta” con l’altro, non per distruggere (come si potrebbe erroneamente intendere) ma per aiutare il Tu a diventare ciò che può e deve diventare, coinvolgendo pienamente le sue potenzialità, la sua volontà, il suo impegno, la sua responsabilità. Proprio, come poco fa si diceva, nel rispetto più grande dell’alterità del tu.
La lotta autentica, che significa consapevolezza e dinamica apertura alle difficoltà dei rapporti, deve evidenziare la sua dimensione positiva implicita, cioè il rispetto. Essa è possibile e giustificata soltanto se rimanda al riconoscimento originario, alla presenza del tu e all’’intimo rispetto.
Lotta è perciò il profondo “dialogo dei prossimi”, che arrivano reciprocamente ospiti, da strade diverse e a volte contrapposte, capaci di incontrarsi proprio a partire dalle differenze, per farle diventare dialogo fecondo.
“Lotta” è il caldo, appassionato, concreto e sempre nuovo dialogo, fatto di “botta e risposta”, nella reciprocità più vera, in rapporto a valori autentici e ad aspettative adeguate: lotta, così la definisce Buber, “con” il Tu (che deve essere soggetto-protagonista), “per” il Tu (per la sua autonomia-pienezza-educazione), a volte “contro” il Tu (per contrastare i suoi comportamenti non approvabili: chiusure, inibizioni, nascondimenti, conformismi, passività, aggressività, capricci…); “lotta”, non per farne uscire “vincitori” e “perdenti” ma per ritrovarci tutti “vincenti”.
È quanto accade anche nella biblica “lotta” di Giacobbe, nel pieno di una notte buia, con un angelo misterioso, che tuttavia è messaggero di Dio, che in lui si nasconde. Giacobbe è un senza nome, un senza identità, un senza-popolo. Dio lo chiama ad un confronto inquietante, che anche in questo caso dura tutta la notte, nell’oscurità più tetra. E Dio, più grande e più forte, si fa vincere: all’alba dà la sua benedizione a Giacobbe e – insieme – gli dà il nome, Israele, che è il nome del popolo: Giacobbe, attraverso quella lotta – realmente educativa – trova l’identità personale e collettiva, e viene incluso nella partecipazione più autentica, da attore reale di una comunità reale. Questa lotta avvincente – vera metafora della lotta educativa – lascia una ferita profonda in Giacobbe, che zoppicherà tutta la vita: è il ricordo indelebile di un incontro autentico che lascia una grande eredità, che lascia il segno, che insegna. Non si può insegnare senza incontrare.
Ciascun ospite lascia perciò nell’altro una storia scritta, essenziale, che si può sviluppare: ciascuno può “narrare se stesso”, esprimere se stesso, partecipare, perché un altro sa e vuole “scrivere nella sua anima”.
Platone utilizza proprio, a proposito del compito dell’educatore, l’idea dello “scrivere nell’anima”:
“In un discorso scritto c’è molto di superficiale e di aleatorio. Soltanto nella parola dell’educatore, cioè in ciò che si scrive veramente nell’anima, intorno al giusto, al bello e al bene, c’è chiarezza, pienezza e serietà; l’educatore capisce che queste parole devono essere proprio sue, come fossero figli suoi, e sa che il discorso – se mai lo abbia trovato – egli lo porta dentro di sé”. Così scrive il filosofo greco Platone.
Da questa lotta educativa che incide, che sa “scrivere nell’anima”, attraverso la parola viva che è testimonianza, proviene la vera “autorità” degli educatori autentici: capaci in primo luogo di “essere autori” del discorso dentro se stessi (testimoni, portatori di un testo credibile) e, conseguentemente, di proporlo ad altri con coerente determinazione per aiutarli a diventare “autori originali” di se stessi e del mondo di cui devono essere protagonisti.
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