Dagli atti del covegno: Un patto tra di noi. Comunità egualitarie di tutto il mondo a convegno a Segrate (Maggio 2007)
Testo integrale atti del convegno
“DOTT.” BRUNO VOLPI [il dott. l’ho trovato negli atti NdR]
Sto in piedi… Io ho bisogno di guardarvi altrimenti non so cosa dirvi.
A me hanno detto di parlare di questo bisogno che c’è in giro, che si sente in giro, almeno in Italia, ma abbiamo girato anche un po’ fuori dell’Italia. Mi sembra che il rapido diffondersi del modello di comunità che la mia associazione propone sta avendo un successo insperato. Sarà perché il prodotto è buono, penso io. Penso anche perché intercetta un bisogno diffuso di comunità.
Allora forse bisogna ragionare su cosa vuol dire comunità, perché mentre è un bisogno, un’aspirazione è anche un po’ una paura. Se per comunità intendiamo una serie di regole, allora la gente si spaventa. Se invece per comunità intendiamo comunione, relazione, allora la gente si… E’ questo il bisogno diffuso. In una società dove le relazioni mancano, il bisogno di relazione viene a galla sempre. Però come? Come dare gambe a questo bisogno di comunione, di relazione? Io vi dico un po’ come l’abbiamo sviluppato noi. Io non entrerò nel dettaglio delle comunità che fanno parte di questo mondo di “Comunità e Famiglia”, ma vi dico un po’ in generale, in modo sintetico qual è il prodotto che proponiamo, qual è la comunità che proponiamo.
Ci siamo dati tre parole chiave: mondo, comunità e famiglia.Mondo, è il mondo nel quale siamo. Noi non vogliamo fare una comunità che scappi dal mondo. Non vogliamo fare un’isola felice. Noi siamo nati, come qui è stato citato, a Villapizzone ed anche prima di trovare la casa Villapizzone.
Siamo nati negli anni 70 quando questo bisogno di comune, di gruppo era molto forte. Io in quegli anni ero molto più giovane e ho trovato tanta, parecchia gente di Milano che diceva una frase che per me è stata molto significativa. Dicevano i miei amici degli anni 70, ce l’avevamo un po’ con tutti, con la Chiesa, con lo Stato, con la famiglia, col lavoro. Non è che non volessimo lavorare, ma ce l’avevamo col modo di lavorare insomma. Però dicevamo: non sappiamo cosa fare, però sappiamo bene quello che non vogliamo più fare. Ecco il bisogno. Eravamo un po’ in crisi. Ci andava stretto il fatto di coltivare delle utopie. Erano anni in cui anche noi coltivavamo le utopie, non solo i giovani di oggi. Però dovevamo fare i conti con la quotidianità. Lì è nata la schizofrenia che ci ha spinto a muoverci. Mi piace che si parli di bisogno. Una comunità nasce su un bisogno dentro. Poi la ricaduta sociale è la conseguenza. Noi siamo nati in quel mondo, in quel momento storico, ma continuiamo a nascere anche in questo momento storico in cui forse c’è questo bisogno di stare nel mondo, però non in modo passivo.
Per stare nel mondo in modo attivo scopriamo che ci vuole l’alleanza. Sono stati citati gli “Atti degli Apostoli”. Io non sono un teologo, però quando si leggono gli Atti degli Apostoli che dicono che i primi cristiani avevano costruito le comunità dove nessuno era bisognoso, io quando ero giovane credevo che questi primi cristiani avessero costruito la comunità perché erano neoconvertiti, fervorosi ecc. Errore madornale! Lo dicono anche i teologi. La comunità dei primi cristiani è nata perché in un mondo non meglio e non peggio di quello di oggi tutto sommato per resistere, ecco una parola chiave che salta fuori spesso adesso quando si parla di comunità, per resistere, non per scappare, ma per stare dentro bisognava allearsi. Infatti è nata la comunità. Io credo che questo bisogno diffuso di comunità si può richiamare a quello, a questo bisogno di resistere, non di lasciarsi… Tante cose ci deludono.
Io non sono né un politologo né niente. Io sono un nonno e quando prendo in braccio mio nipotino mi viene una malinconia, dico: cosa vedrà mio nipotino? Bisogna resistere perché i nostri nipotini trovino un mondo almeno vivibile in tanti modi, in tutti i campi del mondo, dal clima all’ecologia, un modo di far politica diverso. Non a caso alcuni di noi che vivono in comunità si sono buttati in politica. Perché? Perché la comunità li protegge, dà la possibilità anche di buttarsi. Oggi abbiamo bisogno per realizzare certe cose che i nostri politici, i nostri pensatori, i nostri padri spirituali ci dicono, io dico sempre: va bene tutto, ma da che parte cominciamo noi laici, noi gente di tutti i giorni? Cominciamo con un’alleanza.
La comunità come alleanza. Come alleanza per vivere meglio nella convinzione che se viviamo meglio qualche cosa di buono combiniamo. Non possiamo vivere da stressati e pensare di fare qualche cosa di buono. Non è pensabile. Non è nemmeno proponibile. Cosa andiamo a proporre se abbiamo una grinta…? Bisogna trovare il modo di vivere bene, vivere la propria vocazione, che sia di far famiglia, che sia di fare il single, che sia di fare politica, che sia di fare il sociale, di vivere la nostra vocazione nel modo in cui siamo capaci, ma in un modo non stressato, non schizofrenico, cioè essere coerenti con quello che pensiamo e con quello che ci tiene su di giro. Guardate che non è così facile oggi essere coerenti.
La comunità come un luogo dove io sto bene con i miei e quindi posso essere anche utile alla società. Che ci sia una ricaduta. Noi nelle nostre comunità parliamo tanto di ricaduta. Cos’è che ci giustifica perché viviamo a Villapizzone, non so se voi conoscete Villapizzone, ma qualche fotografia l’ho vista fuori, è una cosa splendida. Perché noi viviamo a Villapizzone, la gente vive in quaranta metri quadri? Che cosa ci giustifica per il fatto che noi abbiamo la possibilità di vivere dove vivo io in una contea che era la casa di un conte. Fatiscente finché volete, ma adesso che la stiamo mettendo a posto è una cosa splendida. Perché io posso vivere lì e non un altro? Chiudo perché non voglio prendere poi il posto degli altri, ma una cosa ve la devo dire.
A Villapizzone quando noi siamo arrivati era una struttura magnifica, erano 20.000 metri quadri di parco con 3.000 metri quadri di tetto, della villa, dei rustici in mezzo a Milano, un quartiere come quello di Villapizzone che è vicino, per chi non lo sa, a Quarto Oggiaro, compresso da Quarto Oggiaro. In questo quartiere la gente viveva sì in quaranta metri quadri e lì c’erano 20.000 metri quadri di parco che erano diventati una discarica, dove chi voleva disfarsi di un cagnolino lo buttava lì dentro, dove chi scappava da casa finiva lì, dove chi andava a cercare la figlia scappata da casa andava lì. Era diventato un problema perché c’era un vincolo di verde pubblico e di utilizzo sociale. Il proprietario aspettava che il Comune facesse quello per cui aveva messo il vincolo. Arriviamo noi in cerca di casa e guardate che per una comunità utopica è difficile trovare casa, è difficile farsi credere dal sistema, che noi se viviamo bene saremo utili alla società. È un assunto che non è facile da sostenere perché in genere chi sta bene è un po’ egoista, diciamolo pure. Noi arriviamo lì in questa casa. Il proprietario dice: se volete io vi do tutto, basta che ve la vedete voi con il Comune, con la Polizia, con la nettezza urbana ecc. Siccome la casa nessuno ce la dava, l’abbiamo presa lì. Ma noi abbiamo preso anche quel vincolo, abbiamo sposato senza saperlo il vincolo di verde pubblico di utilizzo sociale. Noi non lo sapevamo. Quando siamo andati dentro gli occupanti, diciamo così in termini molto gentili, vanno al mare anche loro, questa gente un po’ alternativa, di tutto c’era dentro, spacciatori… Vanno al mare anche loro. Quell’estate, noi siamo entrati all’inizio dell’estate ad un certo punto siamo rimasti da soli. Abbiamo detto: che bello. Abbiamo messo il lucchetto sul cancello. Quando sono tornati gli occupanti, ci hanno rubato anche il lucchetto. Da lì abbiamo capito che non potevamo privatizzare quel bene, perché allora noi volevamo fare una comunità, credevamo di usarla noi. Il quartiere, la gente ci ha impedito di cadere in quel tranello. Se noi avessimo privatizzato quel bene, avremmo privatizzato anche la nostra vita e noi saremmo morti come sono morti molti, non tutti probabilmente, ma molti gruppi che sono nati negli anni 70. Questo dover stare nel mondo, essere utili, 20.000 metri quadri di parco, la gente aveva un terrazzino grande meno di questo tavolo, diceva: possiamo venire a prendere il fresco lì da voi? Noi abbiamo detto: venite. Se poi ci date anche una mano a pulirlo, magari ci state meglio. Poi nella villa ci sono i bei saloni. Qualcuno ha detto: possiamo fare la festa di mia figlia che fa la prima comunione o che si sposa, non abbiamo i soldi per andare al ristorante? E noi abbiamo detto: venite. Ecco la ricaduta sociale ce l’hanno non imposta, ma ce l’hanno messa su un piatto. Noi abbiamo soltanto dovuto adeguarci. Noi abbiamo dovuto, il privato sociale insomma è nato… Abbiamo dovuto dare senso alla nostra vita stando nel mondo, facendo bene, vivendo bene noi, non era un sacrificio vivere bene e non era un sacrificio accogliere un gruppo che voleva fare la festa nel parco. Come noi eravamo lì, avevano diritto anche loro.
Le nostre comunità sono nate un po’ sotto questo profilo che noi possiamo continuare a vivere bene nella misura in cui saremo presenti nella società, presenti in un altro modo. Io non credo in un altro mondo, ma credo e vi assicuro che è possibile vivere in un altro modo in questo mondo, il modo dell’utopia, della comunità egualitaria, poi vi spiegheranno cosa intendiamo noi per comunità egualitaria. Mi sembra che questa cosa che a Milano è nata all’inizio degli anni 70 adesso noi la stiamo esportando, non noi la stiamo esportando, ma da altre parti dell’Italia ci chiedono: ma se l’avete fatto voi, perché non possiamo farla anche noi? Allora io da buon nonno vado a raccontare, a dire: guardate che però non possiamo immaginare di fare cose straordinarie. Facciamo una comunità molto ordinaria dove ognuno vive la propria vita, la propria vocazione, il proprio stato, ma non privatizzandolo, mettendosi anche a disposizione.
Non andiamo noi ad offrire qualche cosa, ma siamo lì quando qualcuno ci chiede qualche cosa e allora possiamo dire sì, no, vediamo come fare. Mi sembra che in questi termini la paura di comunità svanisce, ma si vede la bellezza, l’utopia della comunità. Poi gli attriti a vivere accanto gli uni agli altri, ho degli attriti con mia moglie, immaginatevi se non li devo avere con il mio vicino di casa! Anche lì bisogna… Quando abbiamo capito che la parola comunità era molto impegnativa e forse fanno fatica a farla anche i frati e le suore, allora abbiamo pensato al condominio solidale. È stata l’evoluzione di questo modello di comunità.
Abbiamo cominciato a parlare di condominio solidale, non per sminuire il contenuto, ma per renderlo più comprensibile, perché quando si parla di comunità spesso si parla di comunità di servizio, comunità terapeutica, comunità religiosa. Noi invece siamo un po’ tutto. Noi non siamo nati per fare un servizio, non siamo nati per fare terapia, non siamo nati per fare un convento, ma siamo nati perché vogliamo vivere bene e poi scopriamo che un po’ di terapia la facciamo, un po’ di ricaduta sociale c’è e questo crea il benessere della comunità.
Mi sembra da quanto ho visto girando un po’ per l’Italia che ce ne sono molte anche di comunità che non si rifanno a noi, ma che partono un po’ su questo aspetto di modo di vivere. Non tanto modo di fare, ma modo di vivere perché vivendo in un certo modo, qualche cosa di buono si riesce a fare. Non so se ho fatto confusione, però questa è un po’ la realtà.
Grazie.
GIANNI GHIDINI
Buon giorno a tutti. Io mi chiamo Gianni Ghidini, sono una decina d’anni circa che mi sono avvicinato all’esperienza di Comunità e Famiglia e da quattro anni circa vivo in una di queste comunità a Berzano di Tortona che è una località nella Provincia di Alessandria. Siamo sopra un colle. Ho avuto la fortuna anche di avere Bruno come vicino di casa oltre alle altre cinque famiglie con cui condivido questo pezzo della mia vita.
Vi do qualche caratteristica così sia quantitativa, ma che cerca anche un po’ di caratterizzare la nostra esperienza, perché mi sembra interessante, visto che ci sono vari modelli a confronto, il poter avere con semplicità e chiarezza le caratteristiche principali, perché ognuno di noi poi possa apprendere dalle esperienze altrui delle cose che magari sono sfuggite alla nostra. Attualmente ce ne sono circa una trentina di queste esperienze legate a Comunità e Famiglia.
Sono quasi tutte disseminate nel nord Italia anche se ultimamente ne stanno partendo altre nelle Marche, nel Lazio e un’esperienza dovrebbe partire in Sicilia. Sono realtà nelle quali vengono utilizzati degli immobili, pochi, pochissimi sono di nostra proprietà.
La maggior parte sono degli immobili che abbiamo in comodato d’uso. Qualcuno l’abbiamo anche in affitto. Spesso sono immobili di proprietà di enti religiosi che devono trovare la possibilità di riutilizzare questi immobili perché per carenze vocazionali hanno difficoltà ad utilizzarli, ma hanno anche magari la volontà che venga perseguito un carisma che l’ordine religioso ha portato avanti negli anni e adesso sentono magari che affidare ad un’esperienza come la nostra l’immobile può essere interessante. Noi ci occupiamo un po’ della ristrutturazione e tante volte i costi della ristrutturazione vanno a definire un po’ la quantità di anni con cui noi possiamo utilizzare l’immobile. Una trentina circa. Sono composte mediamente da minimo tre/quattro, massimo sette/otto famiglie. Cerchiamo di non avere dei numeri più ampi perché è molto importante per noi la cura delle relazioni, la conoscenza profonda fra le persone, per cui quantitativamente sono più o meno composte così.
Come organizzazione di vita ognuno ha il proprio appartamento. È un appartamento che però, qui c’è la prima cosa interessante, è un appartamento che è leggermente sovradimensionato rispetto ai bisogni della famiglia. Questo ci consente di non essere sordi ai bisogni di accoglienza che tante volte ci vengono fatti. Per cui quando qualcuno bussa alla tua porta dicendo: io ho bisogno di te, tu non puoi dire certo: non ho spazio perché la nostra idea è quella proprio di mettere uno spazio più ampio a disposizione. Ognuno vive all’interno della propria casa, ma facciamo fatica a definirlo un appartamento. Ci piace di più l’idea di casa perché sapete la parola appartamento ha a che fare con qualche cosa che ti apparta dagli altri. A noi piace molto di più la parola casa. Anche il tipo di architettura che abbiamo studiato dove questo è stato possibile, era per favorire un’ampia comunicazione soprattutto tra le cucine. Voi provate a pensare, mettete una vecchia cascina di un tempo, queste cascine quadrate lombarde, al piano terra ci sono tutte le cucine e le sale e questo è il luogo della condivisione più piena. Uno dei nostri slogan è: “Vivere con la porta aperta” e soprattutto la cucina è aperta per lo scambio. Ai piani sopra abbiamo le camere da letto che sono un po’ la zona della privacy più riservata ovviamente. Qui c’è subito un elemento qualificante della nostra esperienza, cerchiamo di coniugare nella maniera più attenta possibile il bisogno di privacy della famiglia e il suo bisogno di relazione. Nel riuscire a tenere un equilibrio dinamico tra queste cose ci sta molto della nostra vita comunitaria.
C’è da dire che oltre a queste trenta esperienze tante ancora ne stanno nascendo forse perché intercettiamo in modo abbastanza leggero questo bisogno di comunità. Non è un bisogno di comunità che va a soffocare l’esigenza di avere una propria famiglia. Cerchiamo di mettere insieme le cose e questa notizia spesso colpisce molto tante persone che sentono che uno stile di vita unicamente privato, unicamente appartato, unicamente dove tu puoi contare solo su te stesso, mette un senso un po’ di soffocamento rispetto alla volontà e al desiderio di vivere una vita piena. C’è da dire che oltre queste trenta comunità c’è circa un migliaio di famiglie sparse per l’Italia che vengono da noi e s’interrogano un po’ sulle cose. È interessante capire questo meccanismo però. Noi non facciamo nulla per fare del proselitismo rispetto a questa idea, ma questa cosa che raccontava Bruno di essere esposti con la porta aperta al fatto che qualcuno passi di lì, probabilmente suscitiamo un certo desiderio perché qualcuno che passa nelle nostre comunità vede che questo stile di vita è bello, interessante. Le persone arrivano e ogni anno abbiamo decine, decine di famiglie che chiedono: ma anche a noi piacerebbe fare una cosa di questo genere. Capite che per dare una risposta un po’ organizzata a tutte queste richieste dopo che Villapizzone era andata avanti per un po’ di anni, c’è stato bisogno anche di avere un’associazione. L’associazione a che cosa serve a noi? Serve per riuscire a dare alle persone che vogliono vivere in questa maniera gli strumenti per poterlo fare. Un’associazione molto leggera però che riesce a far sì che i sogni delle persone si trasformino poi in una progettualità vera. Questo è un dato interessante della nostra esperienza, che si può sintetizzare nella parola diversità. Mentre tante volte le comunità che si sentono in giro sono formate perché c’è un denominatore comune forte che attrae le persone, cioè un senso di identità profonda che lega le persone, per noi non è così.
Noi non ci scegliamo nell’andare a vivere in comunità e abbiamo la pretesa, la follia di riuscire a vivere fraternamente vicino a persone che sono diverse da noi. Noi non chiediamo di avere una matrice precisa. Chiediamo alle persone una volontà di camminare, una volontà di ricercare. Questo ci pone proprio agli antipodi rispetto a tutti i movimenti che nascono e ci sono in giro. Io personalmente vivo la comunità come una possibilità perché io possa essere un Cristiano più autentico. Non ho bisogno che le altre persone siano anch’esse esattamente come me perché io faccia la comunità con loro. Voi capite che allora siamo un’esperienza estremamente trasversale, siamo veramente un ponte tante volte che le persone possono percorrere tra quello che aspiravano ad essere e quello che riescono ad essere nella quotidianità. Certo che la diversità è una bella parola ed è anche poi fonte di qualche fatica. È ovvio che i percorsi di aggiustamento, di trovare le distanze giuste con persone che sono un po’ diverse da te non sono sempre semplici. Provate a pensare a una persona estremamente religiosa e ad una persona magari molto scettica rispetto a questo. Oppure a una persona che magari politicamente è più orientato da una parte piuttosto che dall’altra, che riesce a vivere fianco a fianco con chi la pensa diversamente facendo un patto di solidarietà, dove il patto è: io m’impegno per consentire anche a te attraverso il mio legame che tu possa realizzare al meglio quello che sei.
È una bella scommessa in un panorama come quello di oggi che tende proprio a separare le persone per scomparti omogenei. Questo mi sembra un dato interessante. L’altro dato che caratterizza bene la nostra esperienza è il fatto che le parole sono solo parole se non diventano anche un’economia particolare. Questo è importante, per cui tutte le parole: solidarietà, fiducia, legami, io ci sono ecc. noi cerchiamo di tradurle anche dal punto di vista economico. Per cui la vita nei nostri condomini solidali è organizzata con un’economia che prevede l’utilizzo di uno strumento che è lo strumento della cassa comune. Noi utilizziamo un metodo per cui gli stipendi o i proventi da lavoro di tutte le persone che vivono in comunità vengono messi in un’unica cassa e poi il primo del mese ad ogni capofamiglia viene consegnato un assegno in bianco protetto dall’assoluto anonimato rispetto agli altri, uno scrive la cifra che gli serve per vivere la sua vita. Questo vuol dire che ogni mese noi ci riconsegniamo ad un patto di fiducia profondo con tutti gli altri, perché ogni volta una persona ha in mano mediata dalla sua coscienza, dalla sua fiducia, dalla sua responsabilità anche il versante economico.
Interessante dire che questo modo di lavorare sui soldi ti permette che cosa? Ti permette da una parte un senso forse un pochettino più di libertà, un pochettino più di leggerezza e dall’altro canto invece va a trasformare le parole in un legame anche di tipo economico. Ma questo sarebbe poco se non avessimo aggiunto allo strumento un’altra cosa. Noi alla fine dell’anno, una volta che ognuno di noi ha preso quello che gli serviva per vivere, quello che rimane all’interno della cassa comune lo azzeriamo e lo rimettiamo a disposizione di tutti quelli che avranno voglia, desiderio e la passione di poter rivivere un’esperienza di questo genere.
Questo ci sembra importante, che l’esperienza di “Comunità e Famiglia” sia generativa, cioè sia capace continuamente di mettere qualcosa a disposizione. Usando un altro modo di dire noi diciamo: certo, il dono di aver vissuto e di vivere in un posto così bello, in un’avventura così importante per te, per la tua famiglia, per i tuoi figli è talmente una cosa bella che tu devi fare memoria di questo dono che hai ricevuto. Fare memoria vuol dire allora la capacità di azzerare la cassa comune e di impegnarsi in modo assolutamente volontaristico perché questa cosa che tu hai apprezzato anche altri la possano apprezzare. Ci sembra che l’impegno forte sia questo.
L’ultima cosa invece che mi sembra importante da dire è anche un metodo che noi abbiamo per regolare la vita tra di noi che mi sembra interessante. Noi lo chiamiamo il metodo della condivisione. Un metodo molto semplice. Io lo uso anche adesso sul lavoro perché certe volte è importante avere un contesto di questo genere. Noi diciamo: bene, se abbiamo deciso di vivere tra “diversi”, in che maniera possiamo apprezzare la diversità della storia di ognuno senza andare in conflitto? Allora nella nostra riunione di comunità, voi capirete bene che ogni comunità come ogni condominio ha la sua riunione, noi organizziamo le cose in modo che ogni persona possa dire alle altre persone quello che sta vivendo nel profondo rispetto a un argomento e le altre persone s’impegnano a non dibattere. Sembra quasi un’assurdità, ma il fatto che la comunità non si preoccupa di fare una sintesi di pensiero, ma si preoccupa di mettere ogni famiglia nelle condizioni di vivere bene la propria singolarità familiare, aveva bisogno anche culturalmente di un metodo che confermasse questo. Io non dibatto, io non ti devo tirare dalla mia parte, ma io ti devo ascoltare. Devo ascoltare il significato profondo delle tue scelte, della tua vita ecc. Poi me lo tengo dentro nel mio cuore quello che tu mi hai detto e tu fai la stessa cosa con me. Provate a pensare in un condominio di tipo tradizionale questo metodo. Sarebbe veramente particolare. Infatti poco tempo fa una radio di Roma mi aveva telefonato dicendo: insomma, voi nei condomini solidali come fate a non litigare? Oppure una volta un gruppo di suore in un convento ci chiede: spiegateci un po’ come fate a vivere vicini e non detestarvi l’uno con l’altro? Che detto da un gruppo di suore è stata una bella domanda. Il minimo che noi abbiamo trovato per rispondere a questa cosa è stato proprio questo. Il mio problema non è tirarti dalla mia parte. Io non ti devo convincere di niente. Io ti devo solo raccontare quello che io capisco tutti i giorni dell’esperienza che sto vivendo e te lo consegno nel silenzio. Dopo ascolto te. Guardate che questo sistema sembra la scoperta dell’acqua calda. Invece quest’anno che ho dovuto lavorare ad esempio con dei corpi insegnanti o con dei gruppi di genitori che si occupavano di bambini questa è stata la scoperta dell’America. Capire che è possibile una vita dove l’altra persona raccontandoti le tue cose di colpo diventa invece che un porcospino qualche cosa di un pochino più rotondo, di un pochino più accogliente. Queste sono le caratteristiche che vi ho delineato. Poi ci sarà modo per le altre persone che interverranno di dire qualche cosa in più.
Mi piace dire che questo modo, che Bruno ha tratteggiato, iniziale di concepire che una famiglia sta bene se è una famiglia che accoglie, se è una famiglia che vive più che di mezzi di relazioni, se è una famiglia che vive in relazione con altre realtà, abbiamo provato a trasformare questa intuizione e farla diventare un sistema organizzativo. Il sistema organizzativo di “Comunità e Famiglia” cerca in qualche maniera di ripensare all’intuizione originaria di mantenerle. Poi ci stiamo dotando della cosa più straordinaria dal punto di vista della possibilità di conservare, di tenere viva l’esperienza che è il pensiero, la cultura, il confronto.
Noi ci crediamo molto in queste cose. Cioè l’anticorpo più potente che possiamo immettere nella nostra esperienza è proprio il pensiero, il confronto, la riflessione molto disincantata, la capacità di guardarci, di non autoreferenziarci, di non farci troppo belli, di non pensare che noi siamo migliori degli altri, di non pensare chi vive in comunità è una persona di serie A e chi non vive è una persona di serie B. Cerchiamo di tenere molto alta l’attenzione da questo punto di vista e dall’altro il confronto. Per cui una giornata come oggi penso che sia molto utile e ringrazio di cuore tutti quelli che l’hanno pensata e organizzata.
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